Il restauro di un'opera del Museo Bandini ha svelato una storia inaspettata...
Spesso si tende a pensare che la ‘vita’ di un’opera d’arte, iniziata con la committenza e l’ideazione e proseguita con la realizzazione e la fruizione nel luogo per cui è stata creata, finisca nel momento della musealizzazione. In realtà non è così.
Ce lo testimonia molto bene la vicenda accaduta ad un dipinto del Museo Bandini, resa nota proprio settanta anni fa, sulla rivista «Bollettino d’Arte» [Fig. 1], da Ugo Procacci, storico dell’arte, specialista di teoria del restauro e fondatore (nel 1932) del Gabinetto di restauro dei dipinti di Firenze, e da Leonetto Tintori, artista e restauratore di fama internazionale.
Infatti, nel 1952, durante il lavoro sistematico di restauro dei dipinti del Museo Bandini, preliminare alla riapertura al pubblico dopo il difficile periodo bellico, Ugo Procacci si trovò davanti ad un caso a dir poco singolare, frutto dell’assemblaggio di tavole di epoche diverse, da lui stesso definito «un insolito raffazzonamento» [Fig. 2]. Al centro si vedeva una tavola a forma di croce con una rozza immagine del Crocifisso, forse di epoca settecentesca; ai lati due pannelli con i Santi Jacopo e Nicola di Bari, provenienti da un polittico smembrato e già riconosciuti da Mario Salmi come opere del pittore Lorenzo di Bicci, risalenti al periodo 1395-1400. A questi tre elementi principali erano poi state aggiunte varie parti lignee per formare un unico pannello rettangolare.
Grazie ad alcune abrasioni della pittura settecentesca, fu possibile intuire la presenza di una pittura sottostante, prontamente confermata da un’indagine radiografica. Pertanto, dopo la separazione dei vari elementi del pannello, non fu difficile prendere la decisione di rimuovere dalla croce la rozza ridipintura per recuperare la pittura antica.
Questo primo intervento svelò un Crocifisso risalente al Duecento di buona fattura [Fig. 3]. Tuttavia le sorprese non erano finite ed è a questo punto che entra in scena anche Leonetto Tintori.
È proprio il Tintori, infatti, a raccontarci il seguito, nella relazione tecnica di restauro:
«Solo nella parte bassa delle gambe del Cristo, la superficie era interrotta per larga zona in seguito a caduta di colore provocata da urti di candelieri e dal calore della troppo vicina fiamma; più in alto, nel perizoma, si notava una bruciatura prodotta dal fuoco di una candela accostata. Attraverso queste due mancanze di colore era facile accertare l’esistenza di una più antica pittura la cui superficie in questi punti si presentava molto riarsa e logorata - per l’azione del calore o del fuoco che, dopo aver distrutto i due strati superiori della pittura, aveva intaccato anche la pittura più profonda».
Dunque, sotto il Crocifisso duecentesco or ora riscoperto esisteva un altro dipinto. Si presentava quindi il problema di recuperare la pittura sottostante, eseguendo il distacco di quella soprastante, mantenendo, però, l’integrità di entrambe.
L’esigenza di separare due strati di tempera sovrapposti si era già verificata altre volte, tuttavia spetta a Tintori un’importante intuizione, che egli stesso ci racconta:
«A me era capitato in questi ultimi tempi di osservare come un solvente che normalmente è appena sufficiente a scalzare una ridipintura ammorbidendo la sottostante vernice, divenisse di un’efficacia veramente sorprendente se sottoposto ad un calore che ne sollecitasse l’azione. […] Primo frutto di queste osservazioni era stata la remozione di larghe ridipinture su tavole del XIV e XV secolo […]. Da questi risultati al tentativo della scissione non è stato che una questione di coraggio. A permettere questa realizzazione è capitato opportuno il Crocifisso del Museo Bandini».
Dopo ripetute prove, fu possibile stabilire che la piridina ad una temperatura approssimativa fra i 50 e i 60 gradi era sufficiente a sciogliere la vernice presente tra i due strati pittorici, senza danneggiare nessuna delle due tempere.
Una volta stabilito il procedimento, questo fu sperimentato prima in un rettangolo di pochi centimetri sull’avambraccio di sinistra del Crocifisso, poi, visto il successo di questa prima prova, ne fu affrontata una più impegnativa su tutto il braccio e la mano. Quindi si decise di procedere al distacco completo.
«Per realizzare questo distacco» ci dice ancora Tintori «fu necessario in primo luogo liberare da ogni traccia di vernice la superficie dipinta, quindi incollare su questa una tela leggera con uno stucco di media resistenza formato da colla di coniglio e gesso a oro, reso poroso da un po’ di bicarbonato […], per favorire la penetrazione del solvente. Quando questo fu ben asciutto venne impregnato bene di piridina stendendovi sopra un doppio strato di cartasuga, anche questa satura di piridina e proteggendo ogni cosa con una leggera foglia di stagnola. […] dopo 16 ore si procedette ad intervenire con il calore, ripassando ripetutamente un piccolo ferro da stiro caldo su tutta la superficie. All’azione del calore la vernice si sciolse e la tela si prestò a sollevarsi traendo seco il colore della prima pittura».
L’impresa era compiuta. L’audace intervento di restauro ha così restituito due Crocifissi duecenteschi con la stessa identica sagoma (per questo la radiografia non aveva evidenziato la pittura più antica!), che furono esposti insieme alla Mostra di opere restaurate, tenutasi a Firenze tra aprile e giugno del 1953.
Entrambi raffigurano il Christus triumphans, con la testa eretta e gli occhi aperti, e sulla pittura più antica si conserva nel tabellone anche la scena del Diniego di San Pietro.
La più antica delle due opere [Fig. 4] è stata datata attorno alla metà del Duecento e, a seguito di accurati studi, si è rivelata un importante manufatto di quella corrente di pittura fiorentina che trovò ispirazione in coevi modelli lucchesi. Nel 1977 Miklós Boskovits l’ha ricondotta alla mano del cosiddetto Maestro della Croce n. 434 della Galleria degli Uffizi, poi seguito da Angelo Tartuferi.
La seconda redazione [Fig.2] rappresenta una versione aggiornata dell’immagine sottostante. Il pittore ha sostituito allo schematismo un po’ rigido del primo crocifisso un chiaroscuro e delle lumeggiature che plasmano in modo più naturalistico il corpo del Cristo. Per questi elementi gli studiosi hanno datato l’opera all’ultimo quarto del secolo, riconoscendovi contatti con la pittura di Cimabue.
A questo punto è legittimo chiedersi perché sia stato realizzato questo completo rifacimento a distanza di nemmeno 50 anni.
Ancora una volta ci viene in soccorso Tintori, con un’ipotesi quantomeno verosimile: «La ragione della ridipintura del Crocifisso in un tempo tanto prossimo all’originale è probabilmente da ricercare nel fatto che tutto l’argento del fondo e il gallo, probabilmente dipinto su questo argento, si erano scrostati e che tutta la vernice e il colore dalla caviglia della figura in su erano anneriti e riarsi per una lunga esposizione al calore delle candele».
Certo è che questa particolare vicenda ci offre la rara opportunità di analizzare l’evolversi del gusto rispetto ad una stessa immagine e di cogliere il cambiamento di cui fu portatrice a Firenze, nella seconda metà del Duecento, la pittura di Cimabue.
Fin qui abbiamo detto del restauro e dei due Crocifissi. Adesso non rimane che accennare al gallo.
Nella relazione di restauro, Tintori spiega quali siano le ragioni per cui si deve ritenere che della scena di San Pietro e il gallo, visibile ai lati del corpo del Cristo, la figura del Santo e le architetture appartengano alla pittura più antica, mentre il gallo a quella più recente. Tuttavia, per non rompere l’equilibrio della composizione e non compromettere la completezza iconografica della scena, al momento dell’intervento fu valutato opportuno lasciare anche il gallo sulla superficie pittorica più antica, assieme al San Pietro e all’architettura, dove ancora oggi lo possiamo vedere [Foto 5]. Il suo vivace atteggiamento canoro non solo conforta gli esseri umani ricordando che esiste sempre una seconda possibilità, ma ci rammenta anche che ogni opera d’arte può sempre avere qualche sorpresa per noi.
Silvia Borsotti
Riferimenti bibliografici
M. Salmi, Due tavole di Lorenzo di Bicci, in «Rivista d’arte», XII, 1930, pp. 81-85
U. Procacci, Distacco di tempere duecentesche sovrapposte, in «Bollettino d’Arte», XXXVIII, 1953, n. I (gennaio-marzo), pp. 31-37 (con relazione tecnica di Leonetto Tintori)
Mostra di opere d’arte restaurate, VII esposizione, catalogo della mostra a cura di U. Baldini, Firenze, aprile-giugno 1953, pp. 13-14
M. Boskovits, Intorno a Coppo di Marcovaldo, in Scritti di Storia dell’Arte in onore di Ugo Procacci, I, Milano, 1977, p. 104, n. 18
A. Tartuferi, Pittura fiorentina del Duecento, in La Pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, I, Milano, 1986, pp. 270
A. Tartuferi, La pittura a Firenze nel Duecento, Firenze, 1990, pp. 3, 27, 38, 52 n. 4, 75
Il Museo Bandini, a cura di M. Scudieri, Firenze, Arti Grafiche Giorgi & Gambi, 1993, pp. 64-66
Immagini
Fig. 1 – «Bollettino d’arte», anno XXXVIII, 1953, n. I gennaio-marzo - Copertina
Fig. 2 – Assemblaggio del Crocifisso fra i Santi Jacopo e Nicola (dal volume Il Museo Bandini, a cura di M. Scudieri, 1993)
Fig. 3 – Pittore fiorentino dell’ultimo quarto del XIII secolo, Cristo crocifisso (Foto di Giovanni Martellucci UniFi - Dipartimento SAGAS)
Fig. 4 – Maestro della Croce n. 434 degli Uffizi, Cristo crocifisso (Foto di Giovanni Martellucci UniFi - Dipartimento SAGAS)
Fig. 5 – Maestro della Croce n. 434 degli Uffizi, Cristo crocifisso- particolare del gallo (Foto del Comune di Fiesole)