Fiesole-ai-tempi-di-Dante-cave

Ma quello ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico, / e tiene ancor del monte e del macigno, / ti si farà, per tuo ben far, nimico [1].

Con queste parole Brunetto Latini, nel XV Canto dell’Inferno, profetizzando a Dante l’esilio, afferma che il popolo fiorentino conserva ancora la selvatichezza e la durezza della sua origine fiesolana e, contestualmente, ci consegna una potente suggestione paesaggistica di Fiesole.
Infatti, i rilievi collinari su cui si distende la città sono caratterizzati dalla presenza del cosidetto “macigno” (“arenaria di Monte Modino”, in termini scientifici[2]), una roccia sedimentaria, formatasi in ambiente marino con un processo durato milioni di anni e successivamente emersa (Fig. 1).

Fig. 1 – Veduta di Fiesole da San Domenico
Fig. 1 – Veduta di Fiesole da San Domenico

Chi abita o frequenta Fiesole sa, infatti, che sotto un modesto strato di terra si trova ovunque il masso di questa roccia. Le civiltà che sui due colli fiesolani si sono nei secoli avvicendate hanno dovuto sviluppare e trasmettere le conoscenze e le tecniche che hanno permesso di domare e sfruttare questa grande risorsa. A Fiesole la coltivazione delle cave di pietra (nelle due principali varianti: serena e bigia) e la conseguente produzione di manufatti probabilmente non hanno visto interruzioni dall’antichità al XX secolo e la fitta rete di sentieri e carrarrecce, che ancora solcano l’intera massa collinare, sono una chiara testimonianza di questa attività plurisecolare.

Il fatto, poi, che nell’estrazione e nella lavorazione della pietra non siano state introdotte nel tempo sostanziali innovazioni tecnologiche, ha fatto sì che nascesse una forte tradizione di mestiere tra i cavapietre fiesolani e che si creassero una stabilità socio-professionale e una continuità culturale, caratteristiche della comunità cittadina. Così, quando, pochi anni fa, l’ultimo scalpellino ha cessato la sua attività, per Fiesole si è chiuso un ciclo le cui origini si confondono con quelle mitiche della città e che tanta parte aveva avuto nella definizione dell’identità fiesolana[3].

Fig. 2 – Mura etrusche di Fiesole, tratto orientale
Fig. 2 – Mura etrusche di Fiesole, tratto orientale

Tra le principali testimonianze dell’uso della pietra locale in età antica dobbiamo menzionare le monumentali mura etrusche, che soprattutto nel tratto orientale, dirimpetto a Monte Ceceri, mostrano la presenza di blocchi di macigno, di eccezionali dimensioni (Fig. 2). Particolarmente interessanti sono anche le cosidette “stele fiesolane”, lastre finemente scolpite, destinate ad uso funerario (Fig. 3).

Fig. 3 – Stele funeraria etrusca, VI sec. a.C., Museo Civico Archeologico di Fiesole
Fig. 3 – Stele funeraria etrusca, VI sec. a.C., Museo Civico Archeologico di Fiesole

In assenza di notizie certe sull’attività estrattiva dei secoli compresi tra la fine dell’antichità e il XV secolo, gli storici hanno comunque ipotizzato, a più riprese, che, dopo una riduzione drastica dell’attività nell’alto medioevo, la lavorazione della pietra locale dovesse essere di nuovo fiorente quando fu avviato l’imponente cantiere della Cattedrale di Fiesole, a partire dall’XI secolo, e che, più tardi, lo sviluppo urbano di Firenze a partire dal Duecento debba aver contribuito ad una decisa ripresa del lavoro di sfruttamento delle cave del territorio fiesolano[4].

Quest’ultima ipotesi ha finalmente trovato fondamento in alcuni documenti del notaio fiorentino Ser Matteo di Biliotto, vissuto all’epoca di Dante, presentati per la prima volta da Andrea Barlucchi in un recente saggio[5].

Di Matteo di Biliotto sono giunti fino a noi due registri di imbreviature risalenti agli anni 1294-1296 e 1302-1314 e oggi conservati all’Archivio di Stato di Firenze. Sappiamo che il nostro notaio aveva un desco a Firenze nelle immediate vicinanze del Mercato Vecchio, ma era originario della vicina Fiesole, e con la città natale aveva conservato molti legami[6]. Infatti molti dei suoi clienti erano fiesolani e tra questi compaiono numerosi cavatori di pietra.

Le imbreviature di Matteo di Biliotto rappresentano dunque una vera e propria finestra aperta sul lavoro dei cavatori di pietra a Fiesole all’epoca di Dante.

Fig. 5 – Archivio Comunale di Fiesole, Fondo Ranfagni, Cava di Canara (latomia)
Fig. 5 – Archivio Comunale di Fiesole, Fondo Ranfagni, Cava di Canara (latomia)

I dati recuperati rivelano che in quegli anni nel territorio fiesolano c’erano almeno 16 cave funzionanti, di cui 7 erano situate intorno al Monte Ceceri e nelle adiacenze delle antiche mura della città e le altre 9 nel popolo della Canonica di Fiesole, quindi molto vicine al centro abitato. In 7 casi su 16 si tratta di impianti estrattivi realizzati ex novo tra il 1294 e il 1303, mentre i restanti erano ampliamenti di cave preesistenti e già funzionanti.

Fig. 5 – Archivio Comunale di Fiesole, Fondo Ranfagni, Cava di Canara (latomia)
Fig. 5 – Archivio Comunale di Fiesole, Fondo Ranfagni, Cava di Canara (latomia)

Da un’attenta analisi dei documenti Andrea Barlucchi deduce che in quest’area fossero contemporaneamente in uso entrambe le modalità di estrazione del macigno conosciute all’epoca nell’area fiorentina, corrispondenti a due diverse tipologie di cave: le latomie, cave scavate nella roccia a formare ampie grotte sorrette da colonne di sostegno (prevalentemente intorno all’abitato) (Figg. 4 e 5), e le tagliate, cave a cielo aperto, scavate a vista “sfogliando” la parete di roccia a sezioni verticali (prevalentemente sul Monte Ceceri) (Fig. 6).

Nelle imbreviature di Matteo di Biliotto compare essenzialmente la qualifica professionale del concessionario della cava, definito lastraiolus, cioè colui che individuava il filone di pietra giusto, acquistava la concessione del terreno dal proprietario e si occupava dell’estrazione dei blocchi di pietra, spesso associandosi con altri per gestire l’impresa. All’epoca il lastraiolus si distingueva nettamente dallo scalpellino che, invece, era colui che rifiniva un prodotto semilavorato rientrando nel rango del mondo artigiano e, infatti, non compare mai nei nostri registri.

Da uno dei documenti veniamo a sapere anche che a Fiesole esisteva un’Artis lastrarum, di cui facevano parte lastraioli, lavoranti, e forse anche qualche proprietario di cava. Barlucchi sottolinea però che si tratta degli ultimi anni di vita della corporazione «perché dai primi del Trecento il governo fiorentino avrebbe imposto a tutti gli artifices del contado l’iscrizione ad un’arte cittadina, decretando la morte delle associazione di mestiere nel territorio soggetto. Nel caso presente l’Arte dei Maestri di Pietra e Legname assorbì i nostri lastraioli fiesolani, mescolandoli assieme a tutti gli artieri delle attività edilizie[7]».

Fig. 6 – Archivio Comunale di Fiesole, Fonda Ranfagni, Scalpellini al lavoro in una tagliata
Fig. 6 – Archivio Comunale di Fiesole, Fonda Ranfagni, Scalpellini al lavoro in una tagliata

Complessivamente le imbreviature di Matteo di Biliotto nominano 39 persone impiegate a vario titolo nelle cave di pietra fiesolane. Come ha osservato Barlucchi, molte sono imparentate fra loro (padre-figli; fratelli; suocero-genero) per cui in realtà si tratta di 26 nuclei familiari coinvolti nell’attività estrattiva. Non abbiamo dati numerici sulla popolazione locale a quell’epoca, ma sappiamo che circa 30 anni dopo, nel 1343, a Fiesole abitavano 161 famiglie e se consideriamo che le informazioni offerte dai documenti di Matteo di Biliotto sono per forza di cose parziali, rispetto ad una realtà che doveva essere più ampia, i numeri rivelano un peso notevole di questa attività produttiva nell’economia locale[8].

Inoltre Barlucchi evidenzia che anche i proprietari degli impianti estrattivi erano tutti abitanti a Fiesole o dintorni, con due sole eccezioni: la Canonica fiesolana, titolare di due cave, e il fiorentino Cione di Gianni Macingni, «forse originario di Fiesole,» commenta lo studioso «dal momento che abitava nel popolo di San Michele Visdomini, dove risiedevano molte famiglie da lì immigrate e aveva un cognome inequivocabilmente ispirato alla pietra che lì si estraeva»[9].

In conclusione, i dati forniti da Matteo di Biliotto sono una testimonianza preziosissima, dell’attività estrattiva del macigno nell’area fiesolana ai tempi di Dante, che ci restituisce l’immagine di un settore produttivo in così grande crescita, paragonabile solo a quella, più nota e documentata, dell’età rinascimentale, tanto da far affermare a Barlucchi che «possiamo forse datare a questa epoca la nascita di quell’egemonia anche di tipo culturale da parte delle famiglie dei lavoratori della pietra che ha caratterizzato la società locale fino a tempi a noi recenti»[10].

 

Silvia Borsotti


Note                                                                                                            

[1] Dante, Inferno, XV, vv. 61-63.

[2] N. Casagli, La pietra serena di Fiesole, in M. Cantini, Fiesole fra cronaca e storia, Firenze, Polistampa, 2014, Vol. I, pp. 124-126.

[3] Su questo argomento si veda l’interessante riflessione in S. Cattitti “Grasping With Your Eyes”. Experiential Learning with “The Last Maestro of Pietra Serena” Sandstone in Fiesole, «The ISI Florence architecture series», Quaderno 3, Spring 2018, pp. 36-51.

[4] C. Salvianti - M. Latini, La pietra color del cielo. Viaggio nelle cave di pietra serena di Montececeri, Firenze, Minello Sani, 2001 (I ed. 1988), p. 25; F. Mineccia, La pietra e la città. Famiglie artigiane e identità urbana a Fiesole dal XVI al XIX secolo, Venezia, Marsilio, 1996, p. 177.

[5] A. Barlucchi, I lastraioli di Fiesole e le cave di pietra serena al tempo di Dante, in La Firenze dell’età di Dante negli atti di un notaio: Ser Matteo di Biliotto, 1294-1314, a cura di A. Barlucchi, F. Franceschi, F. Sznura, Firenze, Associazione di Studi Storici Elio Conti, 2020, pp. 209 – 231.

[6] M. Soffici, Ancora una scheda su Ser Matteo di Biliotto, in La Firenze dell’età di Dante cit., pp. 13-15.

[7] A. Barlucchi, I lastraioli di Fiesole cit., p. 226.

[8] Ivi, p. 227.

[9] Ivi, p. 225.

[10] Ivi, p. 231.

 


Riferimenti bibliografici

C. SALVIANTI - M. LATINI, La pietra color del cielo. Viaggio nelle cave di pietra serena di Montececeri, Firenze, Minello Sani, 2001 (I ed. 1988).
F. MINECCIA, La pietra e la città. Famiglie artigiane e identità urbana a Fiesole dal XVI al XIX secolo, Venezia, Marsilio, 1996.
E.M. PETRINI, a cura di, Il Magno Cecero. Il Parco della pietra serena a Fiesole, Guida alla mostra Palazzina Mangani, 23 novembre-9 dicembre 2001, Firenze, Polistampa, 2001.
N. CASAGLI, La pietra serena di Fiesole, in M. Cantini, Fiesole fra cronaca e storia, Firenze, Polistampa, 2014, Vol. I, pp. 124-126.
S. CATITTI, “Grasping With Your Eyes”. Experiential Learning with “The Last Maestro of Pietra Serena” Sandstone in Fiesole, «The ISI Florence architecture series», Quaderno 3, Spring 2018, pp. 36-51.
A. BARLUCCHI, I lastraioli di Fiesole e le cave di pietra serena al tempo di Dante, in La Firenze dell’età di Dante negli atti di un notaio: Ser Matteo di Biliotto, 1294-1314, a cura di A. Barlucchi, F. Franceschi, F. Sznura, Firenze, Associazione di Studi Storici Elio Conti, 2020, pp. 209-231.
M. SOFFICI, Ancora una scheda su Ser Matteo di Biliotto, in La Firenze dell’età di Dante cit., pp. 13-20.

Credits fotografici

Fig. 1 – Veduta di Fiesole da San Domenico
Fig. 2 – Mura etrusche di Fiesole, tratto orientale
Fig. 3 – Stele funeraria etrusca, VI sec. a.C., Museo Civico Archeologico di Fiesole
Fig. 4 – Archivio Comunale di Fiesole, Telemaco Bonaiuti 1824 – 26, Tav. XVI, Veduta di una delle latomie di pietra serena esistenti nel Monte Ceceri
Fig. 5 – Archivio Comunale di Fiesole, Fondo Ranfagni, Cava di Canara (latomia)
Fig. 6 – Archivio Comunale di Fiesole, Fonda Ranfagni, Scalpellini al lavoro in una tagliata